L’Affiche a MIA 2017 | 10-13 marzo

Giovedì 9 marzo inaugura MIA Photo Fair.  Anche quest’anno ci siamo!


1. Alfred Drago Rens Scatti e riscatti

(Un’intervista di Beatrice Gaspari)

Perché l’optical oggi? Non è già stato fatto?

Non amo l’optical. La colpa è stata del colore, che mi spaventa ma insieme mi attrae. Me ne sono accorto dopo, che quello che facevo era op art. Io guardavo a Munari. Per il colore a Mondrian, la mia radice olandese.

La tridimensionalità

I livelli sono un trucco. Il volume ironizza, aggancia. Mi disturba quando chi guarda non va oltre il mio espediente del tridimensionale. Il 20% coglie il gioco, l’80% il lavoro.

Così arriviamo al 100%: tutti ti vogliono

Non ne vado fiero. È la traccia del pubblicitario: più gente acchiappi e meglio è. Vorrei essere un concettuale puro alla Sophie Calle o alla Boltansky. Invece, l’intellettuale e il creativo. Come stanno insieme?

Dimmelo tu

La dualità che ho sempre rifiutato come schizofrenia, oggi la chiamo molteplicità. Alto basso bello brutto simpatico antipatico: la coesistenza di contrasti inconciliabili è il principio della Wunderkammer. È il motore della mia ricerca artistica.

Come è nato il lavoro sul nudo?

Mio nonno metteva mutande di biro blu alle illustrazioni di Gustave Doré della Commedia di Dante, con metodo. Ho rifatto il suo lavoro. Coprire il nudo è un atto perverso. Arrivato alle immagini di bambini ho mollato, erano sacre. Ho sentito il bisogno di fare marcia indietro e di spogliare.

Perché hai scelto proprio quei nudi?

Queste photos trouvées mi restituiscono donne che probabilmente sono state prostitute. Hanno la cellulite, il culone, pettinature da zia. Sono divertenti. Mi comunicano gioia.

E i ragazzi?

Vengono da un universo gay. Le foto di nudi di uomini sono più difficili da trovare.

La pittura che facevi in passato: rinneghi?

Non rinnego nulla. Era già un lavoro su livelli. Molte mamme hanno appeso i miei acrilici coloratissimi nelle camerette dei loro bambini. Non immaginavano che sotto lo strato di colore ci fossero teschi e ossa.

Hai detto che al centro del tuo percorso artistico c’è la paura. Paura di cosa?

Paura del colore; è stata un motore. Paura dell’essere artista, dell’accettare un’essenza che rifiutavo. Paura del nudo. Paura della famiglia.

I bouquet di fiori

Sono la risposta a un’altra paura. Quella della banalità. Nessuno mette più in casa i fiori. Sono banali, si dice. Sono meravigliosi, e per restituire questa valenza attiro su di loro uno sguardo diverso, “gonfiandoli” di tridimensionalità.

La collezione per creare e quella per te stesso: modalità diverse?

Identiche. Gli oggetti mi danno qualcosa. Non è il possederli, è l’averli. Porto gli oggetti nel mio antro, ci parlo e poi ognuno prende la sua strada. Alcuni mi imbarazzano.

Su cosa stai lavorando adesso?

Sull’integrazione tra gli Ziggurat di puro colore e il mondo dei ritratti. Stanno venendo a galla i riferimenti artistici: Baldessarri, Boltansky, Vasarely. Ma anche Fornasetti e Damien Hirst. È una strana macedonia. Li sto lasciando lavorare. Mi piacerebbe tornare al pennello, ma per ora no. Quello che mi interessa in questo momento è restituire sacralità a immagini sconsacrate, esplorando in maniera seriale tutte le maniere per farlo.

Chi è Petite Gau?

È misteriosa e iconica come una piccola Monna Lisa. L’ho associata immediatamente alla forma tonda. Non so chi sia stata, non mi interessa saperlo.

C’è un sadismo lieve nei tuoi lavori, o non sei d’accordo?

Direi più ironia. Mi piace essere un po’ fastidioso. Vedere un nudo maschile o la cellulite in un nudo femminile disturba. Io dico: “No, no, guarda, perché è bello. Riconoscilo!”

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2. Margherita Lazzati Ritratti in carcere

31 fotografie scattate nel carcere di massima sicurezza di Milano-Opera.

31 ritratti, 27 di persone recluse con pene per lo più di lunga durata o fine pena mai, e 4 di volontari; tutti eseguiti tra l’estate 2016 e l’inizio del 2017.

Margherita Lazzati, con l’autorizzazione del Ministero della Giustizia (e grazie al direttore del carcere, Giacinto Siciliano), ha frequentato tutti i sabati per più di cinque anni il laboratorio di scrittura creativa nel carcere e, consenzienti le persone detenute, ha realizzato una vera e propria galleria di ritratti, settimana dopo settimana, mese dopo mese.

Ne ha scelti 31, definitivi. Con la stessa modalità quasi chirurgica con cui due anni fa si immergeva nella realtà dell’Istituto Fondazione Sacra Famiglia di Cesano Boscone e l’anno precedente scandagliava una quotidianità di emarginazione e di umanità “invisibile”, in una Milano illuminata dai fasti di Expo.

Entrambi i progetti furono presentati in anteprima, con Galleria l’Affiche, a MIA Photo Fair. Quest’anno, appunto, è la volta di Ritratti in carcere: 31 fotografie in bianco e nero, in due formati, numerate da 1 a 31.

“Ho cercato in tutti i modi di uscire dalla logica del reportage ed entrare nell’idea del ritratto, in una dimensione nella quale luce, spazio, sfondo, tempo, relazioni, appartengono a una realtà così definita e non modificabile. Volevo non raccontare, ma fermare un’apparenza fisica, un aspetto, una figura, una sembianza, un atteggiamento, un portamento, senza retorica e senza l’ambizione di andare oltre o cercare di cogliere l’anima. Potrei dire che forse, quando si lavora stretti, anche questa è una forma di rispetto.” (M.L.)

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