Margherita Lazzati | Ritratti in carcere, all’Università Bocconi

LEGGI IL COMUNICATO STAMPA

Beatrice Gaspari intervista Margherita Lazzati

Cosa ci fa una fotografa in un carcere di massima sicurezza? Prendo parte da sette anni, come volontaria, a un laboratorio in cui si legge e si scrive, soprattutto poesia. Difficile è stato, negli ultimi due, venire autorizzata a portare la macchina fotografica.

Perché fotografare un laboratorio carcerario? È un luogo inaspettato. Sentivo l’esigenza di raccontare le relazioni nate intorno al tavolo di lavoro.

Avevi intenzioni politiche, di denuncia? No. Ma desideravo documentare.

Perché hai scelto il bianco e nero, per questo lavoro? È il miglior modo di valorizzare il ritratto. L’uniformità data dall’assenza di colore fa emergere lo specifico dei volti. Le luci che cambiano di foto in foto dipendono dall’illuminazione naturale della stanza. Con pochi mezzi le incertezze non sono mancate. Ma trovo che questa parziale casualità conferisca un buon sapore alle immagini nel loro complesso.

Tu, donna, in un carcere di massima sicurezza maschile. Non dirmi di non avere mai avuto paura. Suona retorico, forse noioso, però no: mai. Le persone detenute, sia in laboratorio che nei luoghi d’incontro, sono sempre state più che corrette.

Nessuno si è mai mostrato rabbioso? Provocatorio? Nella scrittura, sì; al limite dell’invettiva. Ma rivolgendosi alla società piuttosto che al carcere come istituzione, o a noi volontari.

Qual è il valore di questa mostra Ritratti in carcere? Ho studiato a lungo un libro di storia fotografica carceraria italiana. La mia ambizione è di aver aggiunto un capitolo a quella storia.

Racconta una mattina in laboratorio È di sabato, sempre. Ci si siede, per tre ore. Ognuno legge quello che ha scritto durante la settimana. Le persone detenute sono attentissime alla cronaca, avendo la televisione in cella. Scrivono, accordando i loro sentimenti più profondi con i fatti del giorno, in forma di poesia.

La gente di solito non ama vedersi ritratta. Pare che la percezione che si ha di sé sia – nonostante la falsa modestia con cui normalmente se ne parla- piuttosto irrealistica. Come hanno reagito i tuoi soggetti nel vedere i risultati? Sorprendentemente, sono i volontari ad aver reagito male: non si sono riconosciuti. Silvana Ceruti, che dirige il laboratorio da 25 anni, ad esempio, e mio fratello, unitosi al gruppo più di recente, non accettavano di apparire così seri, così duri. I detenuti, invece, si sono mostrati contenti del risultato. In più d’un caso commentando, anche in versi, la loro immagine fotografica. Credo che per loro equivalga all’essere riconosciuti come persone. È utile precisare che in carcere non esistono specchi.

I ritratti sono di detenuti e di persone esterne. Vengono esposti mescolati, senza didascalie. Come è nata l’idea? Era il tavolo a interessarmi. Il grande tavolo che, alla fine, compare soltanto in un’immagine. I posti non erano prestabiliti, ma ci si siamo accorti che nel tempo si diventava compagni di banco: per mesi, a volte per anni, a seconda dell’affinità delle situazioni. Valeva per i detenuti, valeva per noi volontari. Ho cominciato a vedere analogie tra dentro e fuori. Si è acceso un interesse. L’idea era: guardandoci da fuori, chi può dire “questa persona è detenuta, questa no?”. Scommettevo che quasi nessuno ci sarebbe riuscito. Scommessa vinta.

Una provocazione? Sì, sfidavo il pregiudizio di chi parla di “facce da detenuti”, “facce da criminali”. Se fosse stato detto dei volontari? Sarebbe stato esilarante, ironico e liberatorio. Uno sfatare i miti positivisti. È stato così.

Come hai realizzato i ritratti? Avevo i miei soggetti di fronte, senza distinzione di “ruoli”; e facevo spostare la persona che mi accingevo a fotografare, di volta in volta. Alle nostre spalle, l’”acquario”: il vetro attraverso il quale la polizia penitenziaria controlla. Sempre.

Come avete scelto le immagini da esporre? Ci ha guidato l’attitudine con la quale, nelle foto, i soggetti si rivolgevano all’obiettivo. In alcune fotografie, era quasi un porgersi. Abbiamo scelto quelle, il più delle volte.

In uno dei ritratti, qualcuno si fa schermo con le mani. Chi è? Pietro. Non ancora fotografato, diceva: “Ci sono anch’io! Guardami!”. Ma tutti interpretano l’immagine al contrario, come se si schermisse. L’interesse di questa fotografia risiede nel suo essere ambigua. E l’ambiguità è, in fondo, il tema di questa mostra. Per questo, l’abbiamo scelta come immagine di presentazione del lavoro al MIA 2017, con la Galleria l’Affiche.

(…)